Nelson Mandela era un uomo che le cose le faceva cambiare. Col pensiero.
Quando uscì dal carcere il Sudafrica era un paese pronto al macello: decenni di oppressione, di soprusi, di violenza fisica e, per quanto possa sembrare strano, soprattutto psichica, avevano costruito paure reciproche tra le razze. I bianchi erano convinti intimamente che sarebbero stati massacrati dai neri. Questi ultimi covavano comprensibilmente rabbia e risentimento, una rabbia feroce e un risentimento infinito. E la voglia di vendicarsi.
Mandela decise che, per una volta nella storia dell’umanità, si poteva fare in un altro modo. Per una volta si poteva cercare un’altra via.
Convinse i suoi, non senza fatica, che era necessario perdonare. Non dimenticare: perdonare. Per poter andare avanti.
L’idea, in verità, non è solo sua. È anche di quell’altro immenso uomo che risponde al nome di Desmond Tutu.
Si sono posti il problema, questi due grandi uomini. Questo paese, si sono detti, ha ferite ovunque. È un corpo che sanguina da ogni parte. Bianchi contro neri, ma anche coloured contro bianchi. E neri contro indiani. E poi bianchi contro indiani e coloured contro neri. E così via in una catena che se non fosse stata spezzata sarebbe andata avanti fino alla completa distruzione dell’intero paese.
Hanno attinto alla sapienza africana.
Una saggezza umana profonda, che conosce il cuore delle persone. Dentro quella saggezza c’era un’informazione fondamentale: chi cerca vendetta rimarrà avvinto al suo persecutore, che sarà sempre al centro della sua vita. Chi cerca vendetta darà al suo persecutore tutta l’attenzione e di conseguenza l’energia vitale di cui dispone, lo renderà padrone della sua vita.
Chi perdona, al contrario, chiude la porta del dolore, consente alle ferite di rimarginarsi e potrà andare avanti, vedere lo spazio aperto della sua vita futura.
Il perdono però non è gratis. Per dare e ricevere un perdono fruttifico, il colpevole deve chiedere scusa. E tutti e due, vittima e aguzzino, devono passare attraverso un’ordalia. Il colpevole deve dichiarare, con sincerità, pubblicamente, la sua colpa. La vittima si trova a dover rivivere il proprio dolore. La comunità, presente e attiva, sopporta con la vittima il dolore della tragedia e mette il sigillo alla colpa.
Tra le grandi cose che ha fatto Nelson Mandela, questa è sicuramente il suo capolavoro. Convincere 40 milioni di persone che era possibile essere più umani. A partire dalla più disumana delle situazioni.
Mi sono spesso chiesta come abbia fatto Madiba a convincere i suoi a scegliere una strada che andava talmente contro gli istinti umani da non essere mai stata provata.
E ad un certo punto mi sono ricordata dell’unica volta in cui Mandela mi aveva parlato.
Era uscito dal carcere solo da pochi mesi e le sue conferenze stampa erano sempre affollatissime di giornalisti. Quel giorno almeno un centinaio erano ammassati nella piccola sala stampa nella sede dell’African National Congress, a Johannesburg. Lo stavamo aspettando da un bel po’ e, con una giovane collega australiana, ci eravamo sedute a terra a gambe incrociate, nell’angolo vicino alla porta.
Quando Mandela entrò, abbassò lo sguardo verso di noi e ci disse sorridendo: “vi siete sedute come siede la mia gente”. Una cosa durata un attimo, ma in quell’attimo (ricordo ancora perfettamente la sensazione) io ho sentito che lui mi aveva “visto”. Per quell’attimo lui era stato lì solo per me. Nel tempo ho verificato che questa era la sensazione che provavano tutti davanti a lui: lui ti “riconosceva”, dava valore a te, essere umano come lui. Non era questione di mostrarsi democratico. Mandela era un capo. Nato in una famiglia di capi e allevato per fare il capo. Perfettamente cosciente del proprio ruolo, del proprio valore e delle responsabilità che si portava dietro.
Era la rara dote di “vedere” le persone, una per una. Con quel talento, e una capacità di ascoltare a lungo, con pazienza infinita, le opinioni di tutti, aveva portato i suoi a incamminarsi per la strada dell’umanità.
Laura Mezzanotte
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